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 I Libri
 

  

La scomparsa dei fatti

di Marco Travaglio
Il Saggiatore, pagg. 320, euro 15,00

Pubblichiamo in anteprima l’indice dei vari capitoli e una parte dell’introduzione.


INDICE
1. L’arte del parlar d’altro 33
2. Senti questo, senti quello 56
3. Tangentopoli senza tangenti 76
4. Armi di distrazione di massa 115
5. Il giornalismo dei polli 145
6. Premiato Bufalificio Italia 160
7. La matematica è un’opinione 210
8. Le notizie col preservativo 229
9. Giornalismo transgenico 249
Post Scriptum 299
Indice dei nomi 305

 


Premessa

«I fatti separati dalle opinioni.» Era il motto del mitico Panorama di Lamberto Sechi, inventore di grandi giornali e grandi giornalisti.
Poi, col tempo, quel motto è caduto in prescrizione, soppiantato da un altro decisamente più pratico: «Niente fatti, solo opinioni». I primi non devono disturbare le seconde. Senza fatti, si può sostenere tutto e il contrario di tutto. Con i fatti, no.
C’è chi nasconde i fatti perché non li conosce, è ignorante, impreparato, sciatto e non ha voglia di studiare, di informarsi, di aggiornarsi.
C’è chi nasconde i fatti perché trovare le notizie costa fatica e si rischia persino di sudare.
C’è chi nasconde i fatti perché non vuole rogne e tira a campare galleggiando, barcamenandosi, slalomando.
C’è chi nasconde i fatti perché ha paura delle querele, delle cause civili, delle richieste di risarcimento miliardarie, che mettono a rischio lo stipendio e attirano i fulmini dell’editore stufo di pagare gli avvocati per qualche rompicoglioni in redazione.
C’è chi nasconde i fatti perché si sente embedded, fa il tifo per un partito o una coalizione, non vuole disturbare il manovratore.
C’è chi nasconde i fatti perché se no lo attaccano e lui vuole vivere in pace.
C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo invitano più in certi salotti, dove s’incontrano sempre leader di destra e leader di sinistra, controllori e controllati, guardie e ladri, puttane e cardinali, prìncipi e rivoluzionari, fascisti ed ex lottatori continui, dove tutti sono amici di tutti ed è meglio non scontentare nessuno.
C’è chi nasconde i fatti perché confonde l’equidistanza con l’equivicinanza.
C’è chi nasconde i fatti perché contraddicono la linea del giornale.
C’è chi nasconde i fatti perché l’editore preferisce così.
C’è chi nasconde i fatti perché aspetta la promozione.
C’è chi nasconde i fatti perché fra poco ci sono le elezioni.
C’è chi nasconde i fatti perché quelli che li raccontano se la passano male.
C’è chi nasconde i fatti perché certe cose non si possono dire.
C’è chi nasconde i fatti perché «hai visto che fine han fatto Biagi e Santoro».
C’è chi nasconde i fatti perché è politicamente scorretto affondare le mani nella melma, si rischia di spettinarsi e di guastarsi l’abbronzatura, molto meglio attenersi al politically correct.
C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti diventa inaffidabile e incontrollabile e non lo invitano più in televisione.
C’è chi nasconde i fatti perché fa più fine così: si passa per anticonformisti, si viene citati, si crea il «dibbattito».
C’è chi nasconde i fatti anche a se stesso, perché ha paura di dover cambiare opinione.
C’è chi nasconde i fatti per solidarietà con Giuliano Ferrara, che è molto intelligente e magari poi si sente solo.
C’è chi nasconde i fatti perché i servizi segreti lo pagano apposta.
C’è chi nasconde i fatti anche se non lo pagano, ma magari un giorno pagheranno anche lui.
C’è chi nasconde i fatti perché il coraggio uno non se lo può dare.
C’è chi nasconde i fatti perché nessuno gliel’ha ancora chiesto, ma magari, prima o poi, qualcuno glielo chiede.
C’è chi nasconde i fatti perché così poi qualcuno lo ringrazia.
C’è chi nasconde i fatti perché spesso sono tristi, spiacevoli, urticanti, e non bisogna spaventare troppo la gente che vuole ridere e divertirsi.
C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti poi tolgono la pubblicità al giornale.
C’è chi nasconde i fatti perché se no poi non lo candida più nessuno.
C’è chi nasconde i fatti perché così, poi, magari, ci scappa una consulenza col governo o con la Rai o con la Regione o con il Comune o con la Provincia o con la Camera di commercio o con l’Unione industriali o col sindacato o con la banca dietro l’angolo.
C’è chi nasconde i fatti perché deve tutto a quella persona e non vuole deluderla.
C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti è più difficile voltare gabbana quando gira il vento.
C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti poi la gente capisce tutto.
C’è chi nasconde i fatti perché è nato servo e, come diceva Victor Hugo, «c’è gente che pagherebbe per vendersi».


da l'Unità del 5 dicembre 2006

Travaglio, il mondo rimesso in piedi sui fatti
Un fantasma si aggira in Italia: la sparizione dalla politica e dalla cronaca dell'evidenza comprovata. Ecco un libro per contrastare il fenomeno
di Furio Colombo

Con La scomparsa dei fatti, il suo ultimo libro (appena pubblicato da Il Saggiatore, pag. 315, 15 euro), Marco Travaglio allarga di molto l'orizzonte della sua inchiesta senza fine dentro le ombre e i silenzi della vita italiana. I suoi libri hanno un successo immenso perché, da subito, in tempo reale, Travaglio ha cominciato a dimostrare che le ombre non sono parte di una naturale fisiologia della vita pubblica e i silenzi non sono «omissis» dovute a ragioni alte o obiettive di necessità. Come nelle prime battaglie pubbliche contro il fumo che uccide, Travaglio - che è immensamente popolare tra i lettori - è visto come un guastafeste o un testimone non richiesto da un vasto schieramento di addetti ai lavori che non amano incursioni nei loro retrobottega, là dove tanti Totò Cuffaro incontrano tanti personaggi imbarazzanti per dire e ascoltare ciò che è bene non sapere e non intercettare, neppure nel corso di un'inchiesta giudiziaria.
La tipica accusa che i responsabili di quelle vaste coltivazioni di foglie di tabacco che sono i campi della politica, è di scambiare per fatti le sentenze giudiziarie, come se fossero in sé verità. Le respingono con lo stesso zelo accurato e implacabile con cui - nel film-inchiesta Insider - le corporation delle sigarette mettono a tacere lo scienziato che, con competenza difficile da smentire, denuncia l'imbroglio del fumo sicuro.
La citazione ci aiuta a capire i due punti di riferimento (e di luce) nel lavoro di Marco Travaglio, libro dopo libro e articolo dopo articolo (soprattutto su l'Unità). I due elementi imprescindibili sono i fatti e la narrazione dei fatti. Travaglio sposta continuamente il punto di equilibrio del suo lavoro da un lato all'altro, non allo scopo di agitare una denuncia del giornalismo complice di fatti e malefatte di un regime. Il suo scopo è più semplice e allo stesso tempo molto più drammatico: la realtà è falsa (ovvero alterata, camuffata, deragliata, nascosta) prima ancora di essere narrata con complice tolleranza, benevoli aggiustamenti e opportune omissioni. Ed è falsa prima ancora che un «regime» (o governo illegale, fondato sul conflitto di interessi e la contiguità con il crimine organizzato) pieghi eventi e decisioni, leggi, interventi e annunci ai suoi speciali interessi. E la realtà - nell'universo politico in cui viviamo - è falsa nel momento in cui ogni decisione viene schermata, poi collegata con spinte e gruppi di interesse, ma attentamente separata dalla consapevolezza, partecipazione e scrutinio dell'opinione pubblica.
Per questo eventi assurdi e inspiegabili avvengono anche quando - ai tempi di un governo onesto e pulito - si scopre che dentro una legge Finanziaria, discutibile ma non scritta a beneficio di alcuni, si celano inspiegabili colpi di spugna (colpi di mano e di mani anonime) destinati a cancellare reati finanziari di dipendenti pubblici, scavando un pauroso fossato non solo fra governo e giustizia, ma anche fra un governo (proprio perché governo onesto) e i suoi elettori. E soprattutto fra politica e cittadini.
Contro Travaglio - fatalmente mal visto da molti tipi di addetti ai lavori - si ripete l'accusa di identificare i fatti con le sentenze dei tribunali, e le sentenze dei tribunali con la «verità». Immaginando per un momento che l'accusa sia in buona fede, è facile rispondere che nel lavoro di Travaglio - nelle sue inchieste giornalistiche che lo portano a sbrogliare, quasi da solo, matasse di eventi altrimenti illeggibili - non è la «verità» il suo riferimento, e meno che mai il suo fine. È l'accertamento, che dovrebbe essere il lavoro irrinunciabile del giornalista ma che lo è sempre meno. Quanto alla venerazione delle sentenze, la risposta è semplice e lo stesso Travaglio l'ha proposta tante volte: la questione, per chi fa mestiere di informazione, non è il ruolo sacro delle sentenze. La questione è più modesta, essenziale e drammatica. È una grave omissione ignorarle, pretendere che non ci siano e creare in tal modo un buco irrecuperabile nel flusso delle notizie.
Senza Marco Travaglio e i pochi (cinque? sei?) giornalisti che lavorano come lui, l'insistenza di alcuni sullo scandalo Previti - che, nonostante la pesante sentenza a suo carico e l'interdizione dai pubblici uffici, va a passeggio per Roma e resta deputato - sembrerebbe solo malanimo e accanimento. Senza l'ossessione dei fatti, il ruolo di Marcello Dell'Utri (indagato, processato e condannato in primo grado per mafia) come fiduciario unico e filtro esclusivo del «nuovo» partito di Forza Italia, apparirebbe solo l'ennesima stranezza nella strana vita italiana.
Ma il libro La scomparsa dei fatti racconta, denuncia e preannuncia una situazione più grave e un male più esteso della polemica berlusconiana. Primo, la deliberata abolizione dei fatti infuria a destra, dove quasi ogni dichiarazione e atto formale è frutto di una divaricazione dalla realtà e di un camuffare gli eventi anche a costo di cancellare intere parti di ciò che è accaduto. Ma il «trend» è tutt'altro che esclusivo. Una sorta di pretesa di amputare la realtà circola in tutta la cultura dell'informazione contemporanea (certo in quella italiana) e il rifiuto di amputare i fatti, benché sia raro, torna sempre a provocare irritazione (e a volte reazione vendicativa) lungo tutto lo schieramento politico. E tutto ciò - benché ormai sia regolare comportamento degli uni (giornalisti) e degli altri (politici, gruppi dirigenti, potere) - viene annunciato per la prima volta nel libro di Travaglio.
Secondo. La tensione fra potere e stampa c'è sempre stata, in Italia come altrove. Basti ricordare un evento del 1962 americano. Quell'anno, indispettito da critiche e rivelazioni ritenute ingiuste, il presidente Kennedy annunciò pubblicamente di aver disdetto l'abbonamento della Casa Bianca al Washington Post. La reazione al momento fu tale da suggerire al presidente un immediato annullamento della sua decisione. Da allora, nel mondo globalizzato e finanziarizzato, la debolezza di tutti i mezzi di comunicazione si è fatta marcata persino a confronto con la debolezza della politica. In Italia il fenomeno è diventato sudditanza. Non si dice nulla di ciò che non si deve dire, e questo spiega la marginalizzazione della professione giornalistica, che non riesce più ad avere un contratto.
Terzo. Il commento diviene lo strumento di informazione dando luogo a un paesaggio disossato, in cui di volta in volta (o di stagione in stagione) si cerca sul mercato la firma giornalistica adatta al gioco in corso e scompaiono a mano a mano le «grandi firme», che ingombravano con qualche residua ostinazione di coerenza.
Più degli altri libri di Travaglio (alcuni veri e propri classici da consultazione per la caotica epoca post-politica in cui viviamo) questo è un manifesto. Dimostra, prova, argomenta nel celebre modo, che si potrebbe contraddire solo scoprendo un errore. Ma l'errore non c'è; c'è la prova provata di una vera svolta nella storia della comunicazione: la morte dei fatti, sotto un cielo gremito di palloncini colorati e spesso folklorici detti «le opinioni», confezionate il più delle volte per il miglior offerente.